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Stasera niente di nuovo

In Cinema, Cultura, Letteratura, Libri, News, Poesia, Politica on 25 dicembre 2013 at 08:34

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Il 25 dicembre del 1942 sarà l’ultimo Natale fascista del nostro paese. La guerra è cominciata da due anni ma è ancora lontana nei trionfalistici richiami dei filmati Luce. La vigilia di Natale esce al cinema l’ultimo film di quella che sarà chiamata trilogia mattoliana “I film che parlano al vostro cuore”. Dopo “Luce nelle tenebre” e “Catene invisibili” è la volta di “Stasera niente di nuovo” che chiude il ciclo. Un quarto film “Labbra Serrate” uscirà nel 1943 andando a formare una tetralogia mattoliana da me non riconosciuta in quanto mancante di Alida Valli, sostituita da Annette Bach. “Stasera niente di nuovo” chiude con una commedia drammatica non a lieto fine un periodo importante per il cinema italiano. Negli stessi giorni è nelle sale “Quattro passi fra le nuvole” di Alessandro Blasetti, film sceneggiato assieme a Cesare Zavattini e Piero Tellini, in cui la storia semplice di un commesso viaggiatore (Gino Cervi) si incrocia con una ragazza di campagna (Adriana Benetti) in attesa di un figlio. Il grigiore della vita di città che si fonde con una civiltà contadina ancora capace di perdonare, scardinerà il vecchio concetto fascista della ruralizzazione del paese. Il paese è qui; povero, fatto di treni affollati, di strade polverose e di corriere che si fermano. La svolta è dietro l’angolo, il 1943 con la caduta dell’impero ed “Ossessione” di Luchino Visconti. Mario Mattoli  regista che più di ogni altro sarà legato al nome di Totò dirigendolo in ben 16 film, con “Stasera niente di nuovo” tratteggia amaramente un’Italia inconsapevole, sull’orlo del baratro e senza speranze. Pochi giorni prima, l’11 dicembre, l’Armata Rossa sferra un duro contrattacco all’ 8ª Armata Italiana in Russia e dopo 5 giorni i russi sfondano le linee italiane. Inizia così, in condizioni climatiche estreme, la ritirata di Russia. 84.930 alpini dell’ ARMIR moriranno in silenzio. Di tutto questo in Italia non si sa nulla, lo sanno forse i protagonisti ingabbiati dentro il film, ma tacciono. Cesare Manti, interpretato da Carlo Ninchi, è un giornalista spiantato che attraversa un periodo di crisi nonostante il talento che ha dimostrato in passato. Vive in una modesta pensione gestita da Clara (Giuditta Rissone) ed è qui che inizia il film. Il giornalista è stato chiamato dal direttore della testata per cui scrive, sono le otto di sera e dorme sul letto vestito. L’incontro con il direttore è breve, in poche battute Manti viene descritto semplicemente dai suoi gesti, dal suo impermeabile sgualcito e sporco e dalle sue battute che rivelano la sua sagacia. Svogliatamente si reca in redazione, poi in tipografia dove viene invitato a fare il solito giro dei commissariati per le ultime notizie prima di andare in stampa. La scena cambia, un commissario di polizia curvo sulla scrivania è intento nella solita routine con delinquenti comuni, borsaioli e truffatori. Sulla soglia compare una ragazza spaurita e tremante che stringe fra le mani una borsetta. Non ha documenti, dice di chiamarsi Maria Bellotti. Proprio in quel momento entra Manti. Lei lo guarda riconoscendolo mentre il commissario prega il cronista di accomodarsi. Mentre si prepara il foglio di via per Maria, che probabilmente si prostituisce per guadagnarsi da vivere, la ragazza dice di conoscere il giornalista. Manti inizialmente nega, poi la ragazza gli parla di Costantinopoli, di un dancing, dell’Esplanade. La Costantinopoli che ne segue ha il cielo di cartapesta e la luna finta, il cinema italiano, consapevole del durissimo anno che seguirà, rinuncia anche nella messa in scena al sogno. Il dancing dove coppie di azzimati signori ballano è un esercizio onirico di Maria e Cesare che ricordano. Sul palco l’orchestra suona mentre Alida Valli canta: “Guardando le rose – fiorite stamani – io penso: domani – saranno appassite… – E come le rose – son tutte le cose – che durano un giorno, – un’ora e poi più …” La canzone che Alida Valli non inciderà mai, e che a noi è giunta nella versione storica di Lina Termini, è “Ma l’amore no” del maestro D’Anzi che la Valli canterà in questo film due volte. Fa molto caldo quella sera, terminato il brano Maria si reca nella sua stanza per rinfrescarsi mentre un ballerino, forse un gigolò, in giacca bianca (Aldo Rubens) si intrattiene un attimo con lei facendoci capire il loro legame. Lungo i corridoi dell’hotel, un uomo in preda al delirio, si affaccia da una camera. E’ Cesare Manti, viene soccorso da Maria e da una cameriera che lo descrive ormai come senza speranza a detta del medico che lo ha visitato. Maria lo accudisce amorevolmente, il flash back si dissolve e Manti finalmente ricorda di essere stato salvato da quella donna. Chiede così la tutela della ragazza al commissario, i due escono e si recano in un caffè per prendere qualcosa. E’ mezzanotte, l’ambientazione del locale è poverissima, qualche avventore, mobilio scalcinato, riferimenti ad un Italia povera che contrastano con i film di qualche anno prima. Le maglie della censura si sono allargate, nel colloquio che segue Maria chiede esplicitamente dove andare, se a casa sua o in qualche altro posto. La richiesta di offrire una prestazione sessuale al giornalista per sdebitarsi del favore ricevuto, sarebbe stata impensabile fino a qualche mese prima. Ma il giornalista ha un altra idea, e tramite un suo amico il dottor Moriesi (Antonio Gandusio) riesce a farla accettare in un istituto per ragazze traviate, la “Casa di Redenzione Santa Chiara”. Quando Manti dopo un po’ di tempo si reca all’istituto per trovarla, i due hanno un dialogo durissimo, per Maria non c’è differenza fra la prigione da dove Manti l’ha tolta e l’istituto. La discussione è poi interrotta bruscamente da Maria, che congeda l’uomo con un “andate al diavolo”. Manti nel frattempo ha ripreso il suo lavoro. Chiede la liquidazione al giornale ed affitta un appartamento, pagando un anticipo di pigione di 6 mesi. La sua idea è quella di togliere Maria dall’istituto per dargli la possibilità di cambiare vita. La ragazza è però fuggita. Sono passati 5 mesi, l’appartamento è ancora vuoto, la portinaia (Dina Galli) lo mostra ad una coppia di giovani sposi. Manti è irremovibile e non vuole cedere l’appartamento. L’azione si sposta, siamo in periferia, un piccolo teatro, un palco, le quinte. Maria è sulla scena sola e canta ancora la canzone di Costantinopoli in un contesto totalmente diverso. Il pubblico ascolta in silenzio, la sala è gremita, ci sono persone in piedi, Maria canta immobile, senza gesti, inquadrata da un primo piano malinconico e sofferente. Terminato il brano fugge dietro le quinte, le ballerine e gli attori escono per la passerella finale. Può così iniziare il film che è “Abbandono” di Mario Mattoli. Si incrociano così nel buio della sala le due pellicole, “Abbandono” un melodramma in costume girato con attori francesi due anni prima sembra lontanissimo da “Stasera niente di nuovo”. L’Italia è entrata in guerra al fianco della Germania, la Francia è nostra nemica, il sarcasmo nei confronti di ciò che appare sullo schermo passa attraverso Tino Scotti che commenta: “Che ambienti, che case, che lusso, tutti ricchi al cinematografo, non lavora mai nessuno, come nella vita, come noi”. Il treno parte fra un’ora, la compagnia viene pagata male e si affretta per non perderlo. Maria ha deciso di non seguirli, ritorna all’istituto festeggiata dalle sue vecchie amiche. E’ in infermeria malata, viene visitata dal dottore la cui diagnosi non lascia speranze. Maria racconta la sua storia a Cesare, i suoi la credono felicemente sposata e prega il giornalista di non far sapere la verità ai genitori. Nella scena successiva per un attimo nel film si vede un raggio di sole ed un inquadratura in esterni. Le ragazze raccolgono fiori, Maria e Cesare si sposano. Mattoli tratta questo passaggio con una delicatezza estrema, una sequenza di primi piani che non vede però inquadrati i due sposi. Di loro solo la mano di Cesare che infila la fede nell’anulare di Maria poi dolcemente gli stringe la mano. Mentre il dottor Moriesi rientrato nel suo appartamento si commuove, una leggera dissolvenza trasporta Maria nella camera dell’appartamento di Cesare che ora è il loro appartamento. Ad assisterla al suo capezzale i due anziani genitori, Cesare è più in là appoggiato allo stipite della porta. La scena è vista con gli occhi di Maria che per un attimo sorride a Cesare e muore mentre una lacrima gli scende sulla guancia. Il telefono squilla. Dall’altro capo il tipografo del giornale che, prima di andare in macchina, chiede a Manti se ci sono novità. Il rumore delle rotative è assordante, Cesare con gli occhi fissi nel vuoto risponde: “No, stasera niente di nuovo”. Il film termina così. Non c’è finale consolatorio, Maria muore in un film in cui non c’è mai stato né un bacio, né una carezza, né l’idea che si potesse assistere ad un diverso epilogo. L’ultimo Natale fascista prefigura anni difficili, la guerra che dura ormai da due anni si insinua fra le pieghe della storia, i telefoni non sono più bianchi ma neri, il melodramma viene raccontato attraverso stanze in affitto, la finta esoticità di Costantinopoli stride con la fotografia di Aldo Tonti giocata sempre su toni scurissimi. L’Italia povera e sbandata che emerge, fatta di piccoli truffatori che il commissario smista nelle varie prigioni, è asserragliata in un cinema affollato dove le ballerine nel finale cantano Felicità  mentre il sipario si chiude. Anche la chiesa è assente, nel matrimonio che si intuisce essere religioso soltanto per quel “davanti a Dio”. Nessun sacerdote viene inquadrato, nessun simbolo sacro compare. Mario Mattoli sceglie attori fidati, Antonio Gandusio nella parte del Dottor Moriesi è commovente nel suo falso cinismo, Dina Galli in poche battute ci mostra semplicemente la sua bravura, Tina Lattanzi voce di Greta Garbo e Marlene Dietrich è la direttrice dell’istituto e Tino Scotti è l’anonimo comico della rivista che si lascia andare ad amare considerazioni sul cinema. I due protagonisti poi: Carlo Ninchi, che nel finale del film piange riverso sul tavolo, realizza il passaggio tragico di questo paese. Lui, l’eroe tutto d’un pezzo di Giarabub il film di Goffredo Alessandrini di pochi mesi prima, paga il conto. Alida Valli si cala come sempre magnificamente nel ruolo, ha 21 anni, “Stasera niente di nuovo” è il suo ventesimo film, alle spalle molte pellicole in cui si è formata con ruoli di tutti i tipi. Riesce ad essere nello stesso tempo credibile nei passaggi da matura cantante di night a Costantinopoli, a ragazza sola e abbandonata. Il tema del cinema nel cinema viene trattato nella seconda parte della storia, ci immergiamo così in cosa volesse dire in quegli anni una sala cinematografica, lo spettacolo di rivista prima, il film dopo, i guitti sempre alla rincorsa di un treno che parte, sempre alle prese con la fame tanto da far ironizzare Tino Scotti sulla figura di Macario, allora già comico affermato che aveva girato ben quattro film proprio per la regia di Mario Mattoli: «Poi dicono che non faccio ridere la sera, vorrei vedere Macario se avesse 12 lire al giorno per mangiare, bere, dormire, i minuti, i piaceri, se farebbe ridere». Per certi versi la sequenza dell’avanspettacolo in un teatrino minuscolo e con il palco troppo piccolo, anticipa due film importanti sullo stesso tema che verranno girati nel dopoguerra e cioè “Luci del Varietà” del 1950 per la regia di Alberto Lattuada e Federico Fellini e “Vita da cani” di Steno e Monicelli sempre del 1950 che ci daranno per intero uno spaccato profondo sul mondo dell’avanspettacolo. Il tema sarà poi ripreso ancora da Fellini molti anni più tardi in “Roma”, nella famosa sequenza del lancio del gatto morto sul palcoscenico mentre un giovanissimo Alvaro Vitali imita Fred Astaire, ma anche da Alberto Sordi nel suo “Polvere di stelle”. Dalle pagine della rivista Cinema, un giovane Giuseppe De Santis attaccherà duramente il film, la nuova critica è alla ricerca di un moderno linguaggio cinematografico ed anche questo film sembra appartenere al passato. Scrive De Santis:

«“Ambientare”, “Creare un clima”: questo era il sogno del nostro Mattoli. E, a onor del vero, il clima è stato creato, ma di quale natura i nostri lettori hanno potuto giudicare essi stessi. Tutta una genealogia di luoghi comuni: dal cronista scioperato alla direttrice che persegue l’infallibile metodo della bontà. […] Mattoli, tuttavia, conosce le arti per incantare il pubblico. Un colpo di scena s’intreccia all’altro con magistrale calcolo, e raggiunge sempre l’effetto desiderato. Alida Valli ha un collo d’angelo su quello da lottatrice. Bravetta come sempre: ma, oh se un giorno si decidesse a fare sul serio! Ninchi è un attore che ancora non riesce ancora a trovare la sua misura, e proprio ci dispiace che capiti sempre in cattive acque. Si è tenuto, però, in linea con il decoro.»

Nella stroncatura, il futuro regista di “Riso Amaro” riconosce comunque a Mattoli una certa abilità nella costruzione del film e l’impiego di due attori la cui bravura emerge dalle pieghe dell’articolo in cui li si critica. Da tener conto sempre la difficile lettura di un film nel momento della sua uscita, occorrono davvero 25 anni prima di giudicare un film come scriveva Francesco Savio? Sul Corriere della Sera l’articolo del 25 dicembre 1942 non è firmato, ma ci fa partecipe del clima della visione del film:

«Alla fine della proiezione il pubblico ha applaudito. Era parecchio che ciò non avveniva. Noi eravamo tra gli applauditori […] e ci siamo accorti che avevamo il ciglio umido […]. La trama si sviluppa in un ambiente, diciamo così di periferia, senza cadere nel bassofondo caro al cinema francese. E suoi protagonisti sono gente abbastanza comune, gente di nostra conoscenza […]: sono poveri ma non patiscono la fame, sono amari ma senza cinismo, e possono anche commettere delle furberie, pur restando sempre capaci di un gesto umano di solidarietà […].»

Giuseppe de Santis recensisce anche il film di Blasetti “Quattro passi fra le nuvole” in un numero di Cinema, il 157 del 10 gennaio 1943, particolarmente emblematico. Scrive De Santis:

«Non possiamo che salutare con tutto il nostro entusiasmo questo ritorno di Blasetti ad un lineare linguaggio realistico. […] Il film narra la giornata di un uomo qualunque, un commesso viaggiatore. L’uomo è dipinto con una sottigliezza psicologica perfetta. Reca con sè una coerenza di gesti e di atteggiamenti che non lasciano dubbio fin dall’inizio sulla sua condizione sociale. […] Si badi bene, non è una preferenza di contenuto che noi avalliamo, ma piuttosto una linearità e semplicità di racconto: quel pacato e dolce essere anonimo di tutte le cose che si pongono avanti, senza la più piccola affettazione, ma come se le incontrassimo per la strada, allo stesso modo che accade nella vita vera, fa parte di una poetica che da tanto noi desideriamo!»

Queste parole, che prefigurano il cinema neorealista del dopoguerra, sono scritte in un numero in cui l’editoriale di Vittorio Mussolini aveva come titolo “Anno decisivo”. L’analisi del cinema italiano fatta di cifre e numeri, mal si confrontava con la realtà del paese e con un cinema nuovo che in maniera quasi profetica si materializzava a pagina 28 dove la rubrica “Fiera delle novità” parlava di un film in lavorazione dal titolo “Ossessione”. Le foto mostrate rappresentavano esse stesse un qualcosa di mai visto. Si era già consapevoli del cambiamento, le poche righe di presentazione di un anonimo redattore, descrivevano il film così:

«Qui – come mai nel cinema italiano è stato di vedere – la natura, a contatto con le creature umane, trova i momenti non casuali di un’ accorata confessione, un pretesto per l’abbandono della sua selvaggia ritrosia a favore di una rivelazione improvvisa della sua più intima e tragica bellezza, mentre gli uomini risentono nella sua nuova prospettiva, come moltiplicati ed esasperati, gli interrogativi della loro angoscia quotidiana.»

Il processo di disgregazione del cinema dei telefoni bianchi nascerà e si svilupperà proprio all’interno di quel movimento tanto criticato e sottovalutato, con gli stessi autori ed interpreti. Il cinema di quegli anni è un flusso di coscienza continuo che sfocerà nel neorealismo di cui è parte integrante. In “E’ caduta una donna” film del 1941 per la regia di Ruggero Guarini, il tragico finale di Isa Miranda che muore per ricongiungersi al suo bambino, ci mostra una donna sola, nella nebbia di Milano la cui vita si è consumata nell’attesa di un momento di felicità che non è mai arrivato. Il melodramma non è ancora consolatorio come avverrà per Matarazzo nel dopoguerra. Dina, la protagonista, per tutto il film attraversa una dopo l’altra situazioni in cui non è libera di scegliere. Sarà la stessa società borghese che gli farà portare a termine la gravidanza indesiderata che considererà poi il figlio un ostacolo per il matrimonio con lo stesso dottore (Rossano Brazzi) che l’aveva convinta a non abortire. Isa Miranda, nel suo arrivo a Milano in cerca di fortuna, nel suo volto statuario, nelle sue toelette eccentriche di indossatrice, è qui donna borghese le cui origini contadine mescolano la struttura classica del melodramma la cui conclusione tragica avviene di notte in una nebbia fittissima di una Milano in tempo di guerra. Ho appena caricato su YouTube, sempre su Epifanies, “Stasera niente di nuovo”. Il film stante le mie ricerche non esiste nè in VHS nè in DVD. La qualità delle immagini non è eccelsa, me ne scuso sin d’ora, ma questo è l’unico modo per vedere questo film, a meno di non recarsi di persona in qualche cineteca a Bologna o Roma, bussare la porta e chiedere: «Buongiorno, vorrei vedere “Stasera niente di nuovo” dove mi posso accomodare?» La versione in mio possesso avuta tramite circostanze fortunose e coincidenze amichevoli, non è completa. La durata originale del film è 90 minuti mentre quella caricata è di 69 minuti. Sono riuscito a farmi un’ idea delle sequenze mancanti tramite il cineromanzo del film uscito nel dopoguerra. Allego sotto le foto di “I vostri film” in cui le sequenze mancanti ci raccontano della vita di Maria nell’istituto e dell’incontro tra Manti ed il losco individuo legato nel passato a Maria. La chiusura definitiva la affido alle parole di Francesco Savio, a cui tutti noi che amiamo il cinema italiano di quegli anni dobbiamo gratitudine per il suo lavoro. Sono le parole che aprono il suo volume più importante “Ma l’amore no – realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943)” testo che racchiude i settecentoventi film usciti in quei 13 anni, fino all’8 settembre 1943. Il libro inizia con una dichiarazione d’ amore per il cinema totalmente libera da sovrastrutture ideologiche ed intellettualistiche che tanti danni hanno fatto a chi, in maniera semplice e genuina voleva avvicinarsi alla settima arte. I film per essere importanti dovevano essere incompensibili, astrusi, decadenti, mentre:

«Certi giorni mi chiedo se è decente parlare di un film senza averlo toccato almeno una volta, senza averne aspirato il profumo, o fatto pila delle sue bobine. Mi chiedo, anche, se non basterebbe aprire al pubblico le cineteche, e tenervi delle visite guidate: a sinistra, secondo scaffale, il negativo di “Darò un milione”; a destra, il controtipo positivo di “Giacomo l’idealista” e di “Ragazzo”. A misura che il tempo trascorre, ed i film cosiddetti da museo mi diventano d’anno in anno più fraterni, godibili e attuali, tutto questo gran discorrere del cinema come d’un fenomeno inscindibile dal suo contesto storico mi arreca un crescente imbarazzo. Eccoli i film, verrebbe da esclamare: sta tutto chiuso là dentro, nelle spire ravvolte attorno al nucleo. Non domandate a loro altro segreto, se non quello custodito dall’emulsione.»

Si chiude così con questo post l’avventura di questo blog iniziata due anni e mezzo fa. Rileggendo gli articoli in sequenza, mi sono accorto che, senza volerlo ma soprattutto senza rendermene conto esiste un robusto filo logico che li unisce tutti. Questo è il mio mondo, lì ci sono io quello vero. Alcune persone più di altre li hanno condivisi e li saluto affettuosamente. Ciao Paola, Antonio, Laura, Francesca, Ella.

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  1. Complimenti per l’intervento. Ho apprezzato anche l’approccio, estraneo ad ogni tradizionale retorica ideologica. Curiosa la recensione di de Santis (comprensiva di almeno uno strafalcione): simili critiche si potrebbero muovere al suo Riso Amaro! Se la fine di questo blog è il risultato del naturale esaurimento del progetto originario, bene; altrimenti, me ne dispiaccio.
    Cordialmente,
    Fabio Patanè

  2. Complimenti per l’intervento. Ho apprezzato anche l’approccio, estraneo ad ogni tradizionale retorica ideologica. Curiosa la recensione di de Santis (comprensiva di almeno uno strafalcione): simili critiche si potrebbero muovere al suo Riso Amaro! Se la fine di questo blog è il risultato del naturale esaurimento del progetto originario, bene; altrimenti, me ne dispiaccio.
    Cordialmente,
    Fabio Patanè

  3. L’ha ribloggato su daisuzoku.

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