Non si conosce nulla di ciò che conta, elementi vacui e vuoti affastellavano la mia mente quella calda mattina d’agosto, quando in religioso silenzio ruotai dolcemente la cinghia delle tapparelle per abbassarle di quel tanto da permettermi una regolare visione de Il cammino della speranza di Pietro Germi che Raitre, nella canicola estiva, si apprestava a trasmettere.
Il difficile reperimento dei film, l’approvigionamento culturale necessario alla mia sussistenza morale, passava quella mattina attraverso il servizio pubblico del martoriato paese in cui all’epoca vivevo. Poi la canzone iniziale ed i titoli di testa, la sceneggiatura di Germi-Fellini-Pinelli e la fotografia levigata ma povera di Leonida Barboni, mi trasportarono d’incanto in un racconto duro e violento ambientato in una zolfatara e della lotta dei minatori che difendevano il loro posto di lavoro 400 metri sotto terra.
Primi piani di donne in nero aprivano il film, accompagnati in sottofondo dalla musica del maestro Carlo Rustichelli, poi una panoramica sulla zolfatara, figure nere immobili, carabinieri indolenti che camminavano col fucile in spalla, bambini scalzi e strappati privi di bisogni. L’arrivo di una camionetta che rompe l’immobilità dei gesti, la polvere, il maresciallo che scende accompagnato da un ragioniere che tenterà di convincere i minatori a desistere.
Preso dalla mole degli avvenimenti accaduti in tre minuti di proiezione, riflettevo in silenzio sulla concezione di cinema che si aveva nel 1950, sul rigore della messa in scena, sull’idea di film come opera d’arte e sull’emozione che essa poteva ancora generare dopo sessant’ anni, quando, nel momento in cui il ragioniere anziano e malato, che conosceva quegli uomini da tanti anni si apprestava in una drammatica discesa agli inferi, ecco che in sovrimpressione cominciò a scorrere una scritta così concepita: “Vuoi diventare un webopinionista di Agorà dal prossimo settembre? Scrivi subito un e-mail ad agora@rai.it per partecipare alle selezioni”.
Incredulo e stravolto dal complicato meccanismo strutturale che dominava il sistema cultura di allora, stordito ma ancora lucido tentai nella prosecuzione della visione. Scomparsa la scritta, nel fondo della miniera stavano gli operai. Li osservai sgomento, in un bianco e nero metafisico e reale che illuminava i loro volti. E qui, per la seconda volta l’infame scritta riapparve, odiosa e terribile come un webopinionista, distruggere per sempre il primo piano di Saro (Raf Vallone) l’operaio che guidava la rivolta.
Chi aveva ordito tutto ciò, mi domandai mentre il tasto pigiato sul telecomando trasmetteva l’impulso necessario allo spegnimento del televisore. Il tecnico adibito a tale atto, da chi era stato indottrinato e, se si fosse rifiutato chi se ne sarebbe accorto. La tapparella con un rapido movimento dell’avambraccio tornò regolare e mi accorsi della giornata di sole che mi aspettava. Decisi tuttavia che quella mattina non sarei uscito, come per compiere su me stesso un esperimento di formale snobismo. Stappai una bottiglia di Pepto-fizz ghiacciata ed in silenzio riflettei a lungo sull’amara frase del compianto (per alcuni) Baldur von Schirach quando affermava di voler subito mettere mano alla pistola quando sentiva nominare la parola cultura.