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Tombini appassiti

In Cinema, Cultura, Letteratura, Libri, News, Poesia, Politica on 30 marzo 2014 at 23:08

Tombini appassitii

“Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere, se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita.”

A pronunciare queste commoventi parole è stato Totò. Rileggendole, rifletto dolorosamente sulla situazione del cinema italiano e sulla miriade di comici provenienti dalla televisione che non fanno ridere.

Li vedo dibattersi invano, fra maldestre sceneggiature e pietose battute che hanno nella parolaccia l’unico modo per strappare un sorriso a lobotomizzati spettatori orami rassegnati allo sbando culturale di questo amaro paese. Potrei fare dei nomi ma questa volta per pietà mi censuro, a volte è bene e pio tacere rimanendo in contemplazione. Il mio sogno irrealizzabile? Il felliniano pubblico di “Roma” che ristabilirebbe l’equilibrio perduto.

Emblematica nel film, la risposta di uno spettatore alla richiesta di un comico (continuamente interrotto) che chiedeva soltanto di poter lavorare: “C’hai ragione, ma cercati un lavoro, no!”

Allego la sequenza in questione che troverete sul mio canale Epifanies su You Tube.

La città si difende

In Cinema on 26 dicembre 2012 at 08:44

La città si difende_1951

Di indole schiva e taciturna, il timido Pietro Germi è stato un grande regista italiano. Dalla nascente critica militante del dopoguerra, venne accusato di non schierarsi apertamente non si sa con che cosa ma tant’è, critiche simili vennero fatte anche a Fellini. Accusato a torto di populismo spettacolare, Germi è in quegli anni regista di genere, ma con grandissima cura formale nella fotografia, nei dialoghi, nella sceneggiatura.

Tutto non deve essere lasciato al caso, ed in questo rigore formale si scontra spesso con un giovane Federico Fellini sceneggiatore dei suoi primi film. “La città si difende” viene definito da Vito Attolini come un thriller neorealista e basta vedere la sequenza della fuga di Luigi (Fausto Tozzi), l’operaio disoccupato che tenta di raggiungere la famiglia della moglie in campagna, per ammirare un ritmo narrativo serrato, greve nelle inquadrature della città che cambia, città osservata attraverso il finestrino come in Aurora di Murnau dalla coppia di sposi.

Considerato un film minore, “La città si difende” accusato ingiustamente di populismo scontato e moralistico, vede Germi rielaborare i temi del poliziesco, riportandoli ad una realtà paesana e specifica; l’incasso dello stadio svaligiato, le strade di Roma ora borghesi ora degradate, l’eterogeneità dei protagonisti della rapina, dal pittore fallito al proletario disoccupato, dall’ex-calciatore idolo delle folle al giovane ragazzo che vive ancora con i suoi genitori.

La voce fuori campo narrante ricorda per certi versi “He walked by the night” un film americano del 1948 in cui una voce neutra ed atonale descrive i metodi lenti ma inesorabili della polizia della contea di Los Angeles. Dubito che Germi possa aver visto questo film (le mie informazioni lo danno inedito in Italia in quegli anni) ma è quasi sicuro che Stanley Kubrick abbia visto il film di Germi prima di generare “Rapina a mano armata” quattro anni dopo.

(Alcune sequenze del film le troverete sul mio canale youtube monsieurmabeuf/cinema sul fondo. Troverete i collegamenti con youtube sotto. Non incollo direttamente i link sul blog perchè il mio rigore formale mi impedisce di squilibrare la pagina web. Lo so, sono su una cattiva strada).

La funesta cultura

In Cinema on 4 novembre 2012 at 07:45

Non si conosce nulla di ciò che conta, elementi vacui e vuoti affastellavano la mia mente quella calda mattina d’agosto, quando in religioso silenzio ruotai dolcemente la cinghia delle tapparelle per abbassarle di quel tanto da permettermi una regolare visione de Il cammino della speranza di Pietro Germi che Raitre, nella canicola estiva, si apprestava a trasmettere.

Il difficile reperimento dei film, l’approvigionamento culturale necessario alla mia sussistenza morale, passava quella mattina attraverso il servizio pubblico del martoriato paese in cui all’epoca vivevo. Poi la canzone iniziale ed i titoli di testa, la sceneggiatura di Germi-Fellini-Pinelli e la fotografia levigata ma povera di Leonida Barboni, mi trasportarono d’incanto in un racconto duro e violento ambientato in una zolfatara e della lotta dei minatori che difendevano il loro posto di lavoro 400 metri sotto terra.

Primi piani di donne in nero aprivano il film, accompagnati in sottofondo dalla musica del maestro Carlo Rustichelli, poi una panoramica sulla zolfatara, figure nere immobili, carabinieri indolenti che camminavano col fucile in spalla, bambini scalzi e strappati privi di bisogni. L’arrivo di una camionetta che rompe l’immobilità dei gesti, la polvere, il maresciallo che scende accompagnato da un ragioniere che tenterà di convincere i minatori a desistere.

Preso dalla mole degli avvenimenti accaduti in tre minuti di proiezione, riflettevo in silenzio sulla concezione di cinema che si aveva nel 1950, sul rigore della messa in scena, sull’idea di film come opera d’arte e sull’emozione che essa poteva ancora generare dopo sessant’ anni, quando, nel momento in cui il ragioniere anziano e malato, che conosceva quegli uomini da tanti anni si apprestava in una drammatica discesa agli inferi, ecco che in sovrimpressione cominciò a scorrere una scritta così concepita: “Vuoi diventare un webopinionista di Agorà dal prossimo settembre? Scrivi subito un e-mail ad agora@rai.it per partecipare alle selezioni”.

Incredulo e stravolto dal complicato meccanismo strutturale che dominava il sistema cultura di allora, stordito ma ancora lucido tentai nella prosecuzione della visione. Scomparsa la scritta, nel fondo della miniera stavano gli operai. Li osservai sgomento, in un bianco e nero metafisico e reale che illuminava i loro volti. E qui, per la seconda volta l’infame scritta riapparve, odiosa e terribile come un webopinionista, distruggere per sempre il primo piano di Saro (Raf Vallone) l’operaio che guidava la rivolta.

Chi aveva ordito tutto ciò, mi domandai mentre il tasto pigiato sul telecomando trasmetteva l’impulso necessario allo spegnimento del televisore. Il tecnico adibito a tale atto, da chi era stato indottrinato e, se si fosse rifiutato chi se ne sarebbe accorto. La tapparella con un rapido movimento dell’avambraccio tornò regolare e mi accorsi della giornata di sole che mi aspettava. Decisi tuttavia che quella mattina non sarei uscito, come per compiere su me stesso un esperimento di formale snobismo. Stappai una bottiglia di Pepto-fizz ghiacciata ed in silenzio riflettei a lungo sull’amara frase del compianto (per alcuni) Baldur von Schirach quando affermava di voler subito mettere mano alla pistola quando sentiva nominare la parola cultura.