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Carlo Hagenbeck

In Libri on 29 luglio 2012 at 10:06

Di Carlo Hagenbeck si è sempre parlato e scritto poco. Quale migliore occasione delle vacanze estive per immergersi nella lettura di Von Tieren und Menschen (Io e le belve) nella pregevole edizione del Dott. Riccardo Quintieri di Milano edita nel 1910, con 150 illustrazioni dal vero. In un epoca fintamente moralistica nei confronti degli animali, la lettura del libro risulta avvincente ed educativa, ristabilisce distanze e misure, fottendosene del politicamente corretto propinatoci oggi in tutte le salse da tv e giornali.

L’utilità del libro è indubbia. Chi di noi per un attimo non ha sognato di avere un formichiere in giardino che scorrazza liberamente, facendo schiattare d’invidia i vicini? Si, ma cosa mangia un formichiere in assenza di un formicaio? E’qui che il buon Carlo mi aiuta con le sue memorie di domatore e mercante. Nel marzo del 1864 acquista vicino Southampton un formichiere che da Londra partirà in battello per Amburgo. L’alimentazione del mammifero sdentato, che il Melzi mi assicura nutrirsi esclusivamente di formiche, consiste in otto uova crude e una libbra di carne battuta. Per bevanda una ciotola di latte rigorosamente caldo. Questo fino a che il raro animale non viene venduto allo zoo di Amburgo dove la sua alimentazione varia leggermente. Scrive infatti Carlo Hagenbeck:

“Frattanto avevo abituato il formichiere ad un cibo speciale, consistente in latte bollito che gli veniva dato la mattina e la sera, mentre a mezzogiorno gli si davano quattro uova crude e mezza libbra di carne. Con questo cibo l’animale prosperò assai, e fu per molti anni ammirato come la più bella rarità del giardino zoologico di Amburgo.”

L’utilità del volume diventa quantomai preziosa in presenza di coliche di elefanti. Nel 1866, a Vienna, era arrivato uno dei viaggiatori della famiglia Hagenbeck con un carico di sette elefanti da trasportare in treno fino ad Harburg. Nei pressi di Norimberga, Carlo Hagenbeck si accorge che gli animali hanno una colica dovuta alla mancanza di moto. Carlo fa staccare i vagoni a Norimberga, fa scendere gli elefanti e li porta a passeggio per la stazione per un paio d’ore. I pachidermi, liberatisi dei loro affanni, vengono fatti risalire sui vagoni. Il cazziatone che seguirà da parte del capostazione di Norimberga diventerà famoso come il processo e la vergine. La stazione è trasformata in un letamaio, Carlo si accollerà tutte le spese per la pulizia delle banchine.

Ma non è tutto. La passeggiata da sola non bastò per una guarigione completa. Fu necessario recarsi in città per comprare alcune bottiglie di buon rhum e qualche libbra di zucchero. Con questi ingredienti Carlo Hagenbeck preparò un forte grog che fu fatto bere agli elefanti che si ristabilirono prontamente. Tutti ad eccetto di uno, infatti: “Ma uno degli elefanti, che forse aveva bevuto troppo liquore, cominciò a fare stranezze: urtava i suoi compagni e prendeva me a calci. Per lui preparai un extragrog, sicchè si ubbriacò del tutto. Si buttò giù per sei ore, finchè dormendo svanì la sua ebbrezza.” Ancora oggi, se capitate nei pressi di Norimberga nelle fredde sere d’inverno, vi verrà servito come rinforzino un boccale di Extragrog Hagenbeck in ricordo dei tempi che furono.

Una realtà implosa

In Uncategorized on 27 luglio 2012 at 17:50

Arrivai sulla scena del crimine trafelato e con un po’d’affanno. L’annuale seduta di psicanalisi junghiana che teneva il prof. Kriegsberg si era protratta più del solito, dato che ci si era incagliati su di uno schema di parole crociate crittografate che avrebbe definito il profilo sessuale di ognuno dei partecipanti. Distrattamente pensai di aver buttato dei soldi, ma credevo nel professor Kriegsberg, soprattutto quando stimolava i suoi pazienti con la sciabola circassa che ornava il suo studio.

Ma, la funzionalità dell’apparato di comunicazione di massa, quando cessa di essere valutata in ragione delle esigenze del sistema, fracassa i fruitori del mezzo. E proprio Sem Buckward trovai con il cranio fracassato nella sua magione di cartone sotto il cavalcavia che incrociava la 56esima. Magnate degli integratori non steroidei, che in quel tempo venivano somministrati come antidepressivi in tutti gli asili di New York, venne condannato qualche anno dopo da un giudice d’assalto del Bronx che dimostrò l’effetto placebo di tali farmaci se diluiti nelle minestre di semolino.

Il nerboruto tycoon, che amava sperimentare su se stesso questi ritrovati, non fu capace di risollevarsi dal crack che ne seguì e cadde rapidamente in miseria. Vani furono i suoi tentativi di rifarsi un’immagine. Il suo allevamento di cavalli di frisia, fu un tentativo grottesco d’impianto di un nuovo media nella società dei consumi ed il battage pubblicitario che ne seguì non andava oltre lo sterile slogan “Nessuno ha bisogno di cavalli di frisia finchè non se ne costruiscono.”

In realtà ne vendette un centinaio al barone Karl Von Loewer, che li sistemò con cura teutonica nel fossato della sua magione in bassa Sassonia, per tenere lontani i gurkha nepalesi che spesso, il governo britannico, inviava dal barone per una storia di contributi non pagati a due colf gallesi, che prestarono servizio al castello subito dopo lo sbarco in Normandia. Ma, nella storia dell’umano progredire, nulla è retorica come un buon cavallo di frisia, amava ripetere Sem (frase senza senso che dava l’idea del personaggio) il quale si intristì rapidamente dopo aver letto sul Frankfurter Zeitung una critica feroce che stroncava la geometria dei suoi cavalli. Diciamo che, dato che non conosceva il tedesco, non si sa cosa lesse ma si intristì comunque e licenziò tutti gli operai che, come buonuscita, ebbero una copia a testa dell’Ulisse di Joyce appena pubblicato.

E proprio con uno di questi volumi venne colpito Sem quella sera di novembre da Unto Swimmer, un suo dipendente particolarmente astioso che aveva mal digerito la lettura del bardo di Rathgar. Trovai Unto che vagava per Flatbush in stato confusionale, con il volume di Joyce sotto al braccio vaneggiare su modelli cosmici di letteratura meccanica implosa. La lettura del ponderoso tomo lo aveva sconvolto e fu facile condannarlo all’ergastolo dato che, il volume deformato, coincideva in maniera perfetta con il cranio di Sem. Lo andai a trovare spesso in prigione negli anni seguenti, nonostante tutto era un buon diavolo, sopraffatto dagli eventi e dalla solitudine. Mi accorsi allora del fine intellettuale che era e della sua strutturata critica a quello che accadde quel giorno a Dublino il 16 novembre del 1904 dalle 8 alle 2 di notte: bullshits.

Gocce Bergmaniane

In Letteratura on 14 luglio 2012 at 23:10

La goccia bergmaniana che cade l’avrei scoperta soltanto anni dopo, quando il labirintico ricordo dei nomi implose in un pomeriggio di ottobre. Il primo Bergman che le mie meningi prelevano dalla mia scatola nera, è sicuramente Victor, lo scienziato di Spazio 1999. La storia è nota a tutti, il 13 settembre 1999 il nostro satellite ci lasciò per mondi sconosciuti (quella che oggi crediamo di ammirare è soltanto un’immagine olografica).

Dicevo dunque che quel giorno, attorno ad un tavolo della sala riunioni della base lunare Alfa, John Koenig, Helena Russell, Alan Carter, David Kano, Paul Morrow e Victor Bergman discussero un ordine del giorno particolare: come sopravvivere. Di Victor Bergman, grande amico da sempre del comandante Koenig, abbiamo notizie frammentarie. Il professore si trova su base Alfa per condurre esperimenti misteriosi di cui nessuno sa niente. Non appartiene a nessun servizio specifico e questo lo si deduce dal fatto che, la sua calzamaglia è grigia senza nessuna manica colorata. Lo ricordo rappresentare la scienza in maniera bonaria, senza misticismi particolari.

Nella maggior parte degli episodi lo vediamo bighellonare per base Alfa senza compiti apparenti. L’uso del computer è limitato al minimo, egli rappresenta, forse, l’ultimo degli scienziati che sa e che non deve chiedere conferme. Qualche volta risponde a John che si dovranno fare dei calcoli, per districarsi dall’ennesima terribile minaccia, ma raramente lo si vede trafficare vicino ad un calcolatore. Ateo convinto, dice di non sapere niente di Dio, ma crede ad un intelligenza cosmica che con Dio potrebbe coincidere.

Erano splendidi pomeriggi quelli, seduto sul mio divano sdrucito, lo osservavo con rigore quasi benedettino. Era così credibile tanto che una domenica mi feci coraggio e domandai al prete, in confessione, cosa ne pensasse di un eventuale intelligenza cosmica. Ricordo che padre Ralph mi cacciò bestemmiando, con una montagna di Pater e Mater per la mia salvezza, teorizzare la superiorità del comandante Ed Straker su John Koenig.

Poi nell’epoca della ragione quasi mi dimenticai di Victor. Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Scene da un matrimonio, titillarono le mie volgari velleità di intellettuale, ma tutto ciò non fu altro che un misero salto nel vuoto. Volli diventare grande, forse finsi ingegno, ma quei film li amai davvero. Ingmar Bergman divenne Bergman primario e mi dimenticai colpevolmente di Victor e del suo sapere. Nell’armonia del cosmo e dei nomi, Ingmar primario rimase pur tuttavia Stenmark (che però faceva Ingemar) con le sue irraggiungibili 86 vittorie in coppa del mondo. Facile dire che spesso, perso nei miei pensieri, campi di forza gravitazionali mi adescano verso Casablanca, Angoscia e Notorius ed una sofferente e malinconica Ingrid Bergman.

Angoscia numero 85

In Uncategorized on 7 luglio 2012 at 12:56

Ora dovete sapere che molteplici sono le angosce degli anni settanta, dai capezzoli fantasma di Vartan, ai servizi segreti deviati, al trasformatore sotto il mobile del televisore. Io ero lì, che oscillavo fra accadimenti che avrebbero cambiato l’Italia, ed il quotidiano che non riuscivo a decifrare. Pezzi di storia scalcinati come macigni mi sfioravano senza colpirmi e apparentemente senza lasciare tracce.  

Cos’era dunque il mondo attorno a me, un enigma stemperato dai ricordi o l’essenza del marciume del mondo che riaffiorava di volta in volta da paradisi perduti? Angoscia numero uno: Zagor n°85 che uscì nel giugno del 1977. La lugubre copertina mostra lo spirito con la scure in un cimitero, attorniato da fetidi pipistrelli che gli svolazzano attorno. Il suo volto è sconvolto e disperato, impugna una rivoltella senza la convinzione che gli possa venir utile. La storia, dopo il solito inizio divertente con alcune gag di Felipe Cayetano Lopez y Martinez etc. si addentra in un racconto di vampiri ungheresi della Transylvania (non so perchè scritta con la y, un inglesismo immagino) magicamente tratteggiata dai pennelli e dalle chine di un ispirato Gallieno Ferri.

La lugubre narrazione si dipana in una trilogia di numeri che violentemente colpirono i figli del boom economico. Noi non cercavamo altro che il momento illusorio dell’evasione, delle macerie attorno, ne avremmo fatto volentieri a meno. Non ci importava nulla della verosimiglianza cartacea e nulla sapevamo di autori e disegnatori. Zoltan era il servitore dell’ottenebrato barone Bela Rakosi (forse fratello del ben più noto Bela Lugosi) che non nascondeva le stimmate del vampiro (castello, mantello ed aspetto emaciato) ma che non veniva riconosciuto da un ingenuissimo e candido Zagor che in fondo rifletteva anche la nostra bonarietà di tredicenni.

I falchi di oggi poco sanno dell’esser giovani, della scoperta un lunedì sera di un angoscia ancor più opprimente che, soltanto anni dopo documentai in Gaslight di George Cukor. Ora, che in un mondo popolato di stronzate, l’analisi di un film nebbioso e vittoriano diventi esercizio sterile lo accetto e cito l’impressione di un film visto in un televisore che ronzava e con schermo bombato che idealizzava un’Ingrid Bergman post-casablanca. Il tormentato personaggio di Paula Alquist è inerme nella sua perlacea avvenenza, sconta frustazioni non sue che non culmineranno in un lieto fine tradizionale, ma su di un illusione transitoria.

Emblema della donna arrovellata da angosce e grandi passioni, la Bergman troverà in Yvonne Sanson in Italia il suo contraltare carnale (paragone ardito ma necessario) deformato dal melodramma e dalla letteratura d’appendice. The King of the Comedy ne farà la misera eroina degli anni della ricostruzione, dirigendola in sette film con Amedeo Nazzari, da Catene a Malinconico Autunno, mostrando ciò che la critica impegnata non seppe vedere, un’Italia più povera del neorealismo.