Combray

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Méliès en caoutchouc

In Cinema on 30 gennaio 2012 at 18:47

Innanzitutto non sappiamo di preciso quanti spettatori entrarono al Salon Indien quel sabato sera. Il numero di 33 sembra essere unanimemente riconosciuto, ma l’Histoire du cinema 1895-1929 di René Jeanne e Charles Ford riferisce di un incasso di 35 franchi che, ad un franco a biglietto, monsieur de Lapalisse insegna, fa 35 spettatori.

Di certo era presente George Méliès invitato da papà Antoine orgoglioso dell’invenzione dei suoi figli. Il Boulevard des Capucines si trova fra L’Olympia e Place de l’Opera e finisce dove inizia il Boulevard des Italiens. Al numero 8 di quest’ultimo si trova il teatro Robert-Houdin diretto da Georges Méliès. Dalla parte opposta Place de la Madeleine dove inizia il Boulevard Malesherbes. Al numero 9 abita Marcel Proust ed è lecito chiedersi quella sera dove fosse e magari fantasticare su di una sua eventuale presenza al salone indiano magari accanto a Georges  Méliès.

Di apparecchi che riproducono immagini ve ne sono altri ma quello dei Lumière ha immagini nitide e stabili, è poco rumoroso ed ha il grande vantaggio di essere utilizzabile sia per riprendere immagini che per proiettarle. Georges Méliès davanti allo schermo immagina in un attimo la deviazione di un futuro. L’idea di cinema è una folgorazione improvvisa che scintilla da un passato che non esiste. Per i Lumière una curiosità scientifica senza avvenire che cercheranno di sfruttare commercialmente nella maniera più vantaggiosa possibile, non vendendo l’apparecchio ma soltanto affittandolo.

Méliès offrirà 10.000 franchi ai fratelli Lumiere per la cinepresa, il direttore del Museo Grévin, Gabriel Thomas ne offrirà 20.000 e Allemand direttore delle Folies Bergère arriverà a 50.000. Le tre offerte saranno rifiutate, Méliès acquisterà allora da Robert William Paul per 1000 franchi un esemplare del suo Animatograph con un certo numero di pellicole Edison che comincerà a proiettare nel suo teatro a partire dall’aprile del 1896. I fatti e le date aiutano a spiegare la storia, ma il sogno di Georges Méliès ha le sue parole:

Sono nato a Parigi nel 1861. La mia prima passione fu il teatro: i famosi fantocci meccanici di Robert-Houdin – l’Arlecchino, la testa di Belzebù il pipistrello rivelatore – mi trasportavano letteralmente fuor di me stesso. E siccome avevo un certo talento naturale per la meccanica tanto feci e tanto studiai finchè mi riuscì di riprodurre quelle meravigliose marionette [1936]. Ho quindi costruito automi, è vero, ma non li ho inventati. Mi esercitai per un po’ intorno alle macchine della fabbrica di mio padre, e poi non feci altro che imitare quei congegni dopo averli visti in azione da lontano, sulla scena del teatro Robert-Houdin [1929]. Passavo giorni e notti a correggerli, a perfezionarli, a inventare nuovi accorgimenti e stratagemmi inediti: mille diavolerie, insomma, per attirare l’attenzione degli spettatori e trasportarli fuori dalla realtà [1936]. (2_continua)

Sorry, this is the end

In Uncategorized on 30 gennaio 2012 at 18:38

Un’improvvisa fumata spazzò via in un sol attimo tutte le mie certezze. Conoscevo già il suo stato di salute precario, il suo essere sperduto e spaurito in un mondo che più non lo riconosceva. Non accettava il progresso tecnologico che, all’inizio del secolo scorso modificò radicalmente la concezione dell’arte visiva, fino ad allora inriproducibile. Ma continuava il suo lavoro con serietà e dedizione, in una società che lo aveva messo al bando, in nome di un mondo in sedicinoni. Ma non era tanto il formato che lo rendeva triste, quanto l’idea di una realtà senza più cinescopi.

Destinati ad estinguersi come i dinosauri, a differenza di questi ultimi, avevano accompagnato fedelmente l’uomo per 90 anni per poi essere dimenticati in nome di un progresso digitalizzato. Ma non era un caso che, nei Cathode Ray Tube, la scansione dell’immagine avveniva per mezzo di un pennello elettronico che la ricostruiva, o meglio che la ridipingeva come in un anelito di civile creazione. Un pennello è per definizione superiore a dei volgarissimi pixel, e poi Wladimir Zworykin non avrebbe compreso.

Con mestizia e rabbia ricordo il mio ultimo film vissuto cinescopicamente in quattroterzi. Nei pressi di un cavalcavia, vicino ad un cassonetto dell’immondizia avevo sentito un pianto soffocato e malinconico. Mi avvicinai e sul selciato giacevano abbandonate diverse videocassette. Erano state quasi tutte schiacciate da pneumatici immondi, presumo da un novello inconsapevole Erode. Attenuato dall’erba il vagito primordiale, la sirena di Ulisse che mi avrebbe condotto verso il paradiso perduto. Corsi verso casa cogitabondo, il mio pezzo di pane abbrustolito di proustiana memoria, mi accompagnò in un epifanico pomeriggio.

Seguì la visione di “Sorry, wrong number” che il mio io filologico cita in originale, ma che in italiano (Il terrore corre sul filo) aveva un titolo forse superiore, come quasi mai accade. Una spaurita Barbara Stanwick a letto aspetta la sua cicuta senza opporvisi, in un coacervo di flashback ad incastro. E, se Hitchcock farà morire, 12 anni più tardi Janet Leigh a metà film, scombussolando totalmente canoni narrativi consolidati, Anatole Litvak la ucciderà a fine film, quando da tredicenne imberbe immaginavo un mondo diverso. Trentaquattro anni dopo, una sera di gennaio, per me ora il più crudele dei mesi, mi incamminai tristemente verso una discarica abusiva, con un fardello cinescopico sulle spalle, fischiettando meccanicamente This is the end, e con il grande rammarico di non avere del palmitato di sodio a portata di mano.

Immaginario da ricostruire

In Uncategorized on 14 gennaio 2012 at 18:28

È sempre difficile quantificare la vita reale di un fumetto. Quanto pagava d’Ici Wash Tubbs? Sor Pampurio i venerdì di quaresima, mangiava di magro? Certezze non ne abbiamo, possiamo, come nel cinema, immaginare cosa accade al di fuori dell’inquadratura. La triste fine di James Bond è emblematica. Malato di sifilide, si spegne in solitudine in un sanatorio del Sussex sul finire degli anni ottanta. D’altronde lo avete mai visto indossare un preservativo?

Molto più misteriosa è stata la vita del signor Bonaventura. Nato sulle pagine del Corriere dei Piccoli il 28 ottobre del 1917 riceveva, alla fine di ogni storia, come ricompensa per i suoi inconsapevoli servigi, un milione. La questione non banale è quella di capire come costui spendesse questo denaro. Tranne rare occasioni in cui Sergio Tofano inizia la storia con: Il Signor Bonaventura ricco ormai da far paura, il nostro eroe dilapida puntualmente il milione che guadagna. Come lo dilapida non ci è dato modo di saperlo, possiamo immaginarlo in spese folli (nella storia del 6 ottobre 1929 compra un’aragosta che non poco inver gli costa) spese che lo costringono spesso ai lavori più disparati, dal venditore di frittelle a quello di lozioni per la crescita dei capelli in 5 minuti. Ma spesso passeggia, ozia beatamente, insomma non fa un bel niente, come se vivesse di rendita. D’altronde della moglie Reginotta sappiamo poco, ma dato che si aggira per casa con una corona, e in Italia c’è ancora la monarchia, qualche soldo da parte deve pur averlo.

Il suo contraltare dimenticato, lacero e cencioso è Serafino di Egidio Gherlizza che povero lo è davvero, in un’imprecisata periferia americana dove vive in baracche fatiscenti o dorme sulle panchine. E’ l’ultima frontiera del fumetto prolepopolare italiano, in cui fame e miseria sono visibili in storie semplici e genuinamente, mi scuso per il termine, poetiche. Ma se in Serafino vita privata e fumetto si fondono alla perfezione e non può esistere una realtà parallela, ricordiamoci tutti la vita privata (tenuta nascosta per anni) di Little Orphan Annie di Harold Gray, costretta per anni a prostituirsi in lupanari di terz’ordine con il nome d’arte di Little Oral Annie. Gli anni ottanta spazzeranno via tutto questo marciume, quando un Johnny Storm malato, farà causa ai Fantastici Quattro per averlo fatto dormire per anni in un letto con coperte di asbesto.

This time in color!

In Cinema on 4 gennaio 2012 at 23:08

Che il cinema sia morto non è più un segreto per nessuno, ma quando è avvenuta la sua dipartita? I critici più esigenti, datano il trapasso facendo coincidere questa data con il giorno in cui è mancato Georges Méliès. Colui che da Georges Sadoul venne considerato l’alba della settima arte, muore a Parigi il 21 gennaio 1938, povero, solo, dimenticato.

Si può anche non essere esigenti, ed essere prosciolti da giudizi secchi e draconiani. Accettiamo allora il corso del tempo, il salto temporale che rassicura la critica piccolo borghese. La Colorization Inc. nel 1985 sbianconerizza It’s A Wonderful Life di Frank Capra, il cinema smette di essere assoluto. Il magnate Ted Turner nel 1986 acquisisce 3700 titoli della Metro Goldwyn Mayer per trasmetterli sulle sue reti e diventa anche il proprietario dei master originali di ogni singola pellicola. La situazione precipita e nonostante varie crociate di sensibilizazione, l’allora marito di Jane Fonda decide di colorare e trasmettere sulle sue reti, film che hanno fatto la storia del cinema.

La deflorazione definitiva, avviene il 9 novembre del 1988 quando sugli schermi della Dabliutibies viene trasmesso Casablanca, preceduto da un lungo tormentone pubblicitario che aveva come motto Play it Again Sam, This Time in Color! Nonostante l’allegro e colorato ritornello, è il giorno più grigio della storia del cinema. Un manipolo di uomini senza scrupoli, riscrive le regole del concetto di proprietà artistica, e idealizza un futuro microprocessorizzato, da sottoporre a software inutili che convertono scale di grigi in colori. Si altera materialmente l’opera originale con l’unico scopo di prostituirla televisivamente. Orson Welles è morto tre anni prima. La leggenda vuole che in punto di morte le sue ultime parole siano state “Not colored Citizen Kane.” Quarto Potere sarà uno dei pochi classici ad essere risparmiato dalla furia iconoclasta della Colorization Inc.